Dicono di lui

Scene dal campo di battaglia dell’estetica

di Enrico Mascelloni (critico e storico dell’arte, 2014)

A distanza di secoli e con un linguaggio diversissimo mi viene da dire che Vignali riproponga la lezione di Paolo Uccello nel suo nodo centrale, precipitando l’insieme guerresco nella finzione assoluta. Se in Paolo Uccello il campo di battaglia era una precisa congerie di linee astratte e di colori araldici unificati dalla visione rinascimentale dello spazio, in Vignali è un composito campo in cui convivono i relitti estetici di epoche diverse, unificato da un linguaggio espressionista che organizza lo spazio al modo di una tromba d’aria. Ma in tutti e due i casi ciò che ne viene fuori è una pura astrazione. Ambedue ci dicono con una chiarezza rara che l’estetica svela la guerra a sé stessa rendendola irrappresentabile, cioè trasformandola in una pura finzione.

 

Enrico Mascelloni (critico e storico dell'arte), Alessandro Vignali. Foto di Ginevra D'Archi

Enrico Mascelloni (critico e storico dell’arte), Alessandro Vignali. Foto di Ginevra D’Archi

Ogni quadro è un viaggio

di Anna Gili  (designer, 2002)

Alessandro Vignali dipinge città immaginarie e architetture fantastiche con gergo gestuale e figurativo. Ogni quadro è un viaggio all’interno di queste metropoli immaginarie, popolate di aeroplani navi e astronavi. Soldati e bambini svolgono il proprio ruolo nel sociale, giocano, parlano e come automi popolano le città. La pittura di Alessandro è necessità e passione che sgorga all’improvviso dalla reazione ad una passeggiata, mentre ammira il castello di Alviano, il paese dove abita. Ecco che la visione lo assale, lui si fa coinvolgere e dominare dal desiderio di rappresentarla. Con il colore ad olio miscelato da sua madre libera tutti gli impulsi inibitori. La logica razionale di come si rappresenta un’architettura ad Alessandro non interessa, il suo corpo, le sue mani sembra che sappiano.., che abbiano ricevuto l’impulso dalla sua mente in preda alla visione di città nordiche lontane da lui visitate. Alessandro trasferisce l’idea tutta e direttamente nella performance del gesto. La sua pittura neoespressionista e neofuturista è fisicità e istinto. I tratti sono decisi come i colori del resto, non c’è spazio per il dubbio o per il ripensamento. Tutto scorre veloce come in un grande torrente in maniera travolgente. Cattedrali che fluttuano nella grande inondazione, navi simili a gondole veneziane accompagnano come in un rito funebre l’apocalittica visione. Alessandro conosce “gli abissi”, la sua forza è la sua capacità di rappresentarli. Nel panorama artistico attuale Alessandro è un vero outsider, non dipinge perché ha frequentato scuole d’arte o perché è legato agli ambienti culturali del settore, ma perché il suo karma gli impone il complesso mondo di simboli. Da questo suo isolamento nasce la forza della sua pittura. I quadri che lui dipinge coincidono con l’esperienza della sua vita, e Lui nell’occasione di questa mostra, che è una piccola selezione della sua vastissima produzione e tematiche espressive, ci rivela un sottile aspetto della sua poetica.

Storie visionarie di battaglie

di Andrea De Angelis (architetto, artista visivo, 2005)

Di fronte alle tele di Vignali la sensazione è quella di essere aspirati nel caos della creazione. Tutto contribuisce all’assorbimento di chi osserva: il grande formato, l’ambientazione di un esotismo nordico e una sicura pittura gestuale. Non riusciamo subito ad inquadrare l’opera in una categoria che ci rassicuri, l’uniformità stilistica e gli elementi narrativi riconducibili al Neo-Espressionismo di un Kiefer e alla Transavanguardia annullano un primo preconcetto giudizio di pittore naif, e in un secondo momento si impone in tutta la sua sorprendente chiarezza un ulteriore livello di lettura dell’opera quale composizione astratta in cui i vari elementi figurati nei dettagli si fondono dando vita a un pattern vibrante di dimensioni ambientali. La materia densa della pittura si organizza in composizioni complesse, allusive ad una figurazione immaginifica e poetica, che recupera sogni infantili e metamorfosi favolose. Storie visionarie di battaglie di uomini contro uomini, formiche che distruggono ciò che loro stesse hanno costruito annullando ogni traccia di natura. La macchina, in quanto prodotto umano di eccellenza che sia nave, aeroplano o architettura, è appendice, si fonde con l’essere che la manovra, che la popola. Ciò è espresso per mezzo di forme e campiture fatte per tratti paralleli di colore che smaterializzano la densità, dinamizzando la percezione. È tutto un processo di combustione ad alta temperatura emozionale, abolita è la distanza tra la terra e il cielo tra la vita e la storia tra il reale e il soggettivo. Pare non esserci spazio al di fuori dell’opera di una artista il cui lavoro è il proprio destino; ed è questo ciò che ci sconcerta, abituati alle mediazioni di un’arte filtrata, raffreddata dalla tecnica o imperniata sul concetto.

Città

di Francesco Santaniello (critico e storico dell’arte, 2007)

Se cercate la bellezza, classicamente intesa, di linea, forma, colore, sembianze e sentimento; se desiderate trovare una visione rassicurante della realtà; se richiedete alle espressioni artistiche solo catarsi, trasfigurazioni mitologiche, fughe estatiche, auliche ed elegiache interpretazioni; se siete intenzionati a vedere le opere con gli occhi di un “turista dell’arte”, allora non visitate la mostra di Alessandro Vignali. Fermatevi! non visitate questa mostra. Altrimenti vi trovereste di fronte a grandi superfici pittoriche caratterizzate da iperboli cromatiche e da un’inquieta-inquietante ipertrofia visiva amplificata da quel senso di horror vacui che ha portato l’autore a ricoprire di pigmento ogni centimetro a sua disposizione. Per Vignali la pittura è prima di tutto un’esperienza totalizzante, un’esigenza necessaria per placare il suo deflagrante slancio creativo; egli vi giunge autodidatta dopo un non facile percorso esistenziale. In essa visualizza la sua interpretazione della realtà: visionaria, futuribile, deprecabile, spaventosa, catastrofica, ridondante, surreale, problematica, sconvolgente, proprio come il bombardamento mediatico a cui siamo quotidianamente sottoposti. Su tele di grandi dimensioni, libere dalle costrizioni fisiche dei telai, lasciate grezze senza preparazione, Vignali riversa con fare istintivo, gestuale, prorompente, immagini di caotiche battaglie combattute da moltitudini indistinte di umanoidi senza volto; bombardamenti di aerei neri come corvi, che si aggirano sinistri, come oscuri presagi, su metropoli immaginarie di un futuro remoto. In altri casi, fiori giganteschi dai colori conturbanti sbocciano fra padiglioni orientaleggianti; imbarcazioni vichinghe solcano mari sconosciuti; astronavi planano improvvisamente su paesaggi raggelati in un’atmosfera atemporale. Questi sono solo alcuni dei soggetti trattati da Alessandro Vignali, un frammento della sua irrefrenabile esigenza di agire con la pittura: un agire necessario per poter essere. Nel suo repertorio iconografico traduce i tormenti e le inquietudini del suo Io, catapultato in una società e in una dimensione di cui l’autore percepisce soprattutto l’ostilità. La sua pittura si dispiega in larghe pennellate, dense di materia, grumose, spesse. I toni sono perlopiù terrosi, smorzati, virando sensibilmente verso i colori freddi, ma a volte si accendono nelle cromie dei rossi o nei bagliori delle tinte auree e argentee. Nei dipinti di Vignali non esiste profondità, né spaziale né temporale, tutto avviene nel piano bidimensionale, in cui ogni regola prospettica è annullata o meglio rinnegata; tutto accade nell’istante, in un momento imprecisato dove passato e futuro si dissolvono. L’esperienza pittorica di Alessandro Vignali può essere per certi versi assimilabile a quelle forme di espressione artistica che si sviluppano al di fuori dei canali culturali tradizionalmente riconosciuti. La sua maniera, di brutale forza comunicativa, non può lasciare indifferenti, colpisce direttamente le facoltà cognitive, tende a scardinare il comune senso estetico, è problematica, proprio come l’epoca che stiamo vivendo. Di certo quella di Vignali è una visione pessimistica della realtà e del futuro, ma ha il pregio di scuotere le coscienze e indurre alla riflessione. In molti casi l’arte è stata, ed è tuttora, una sorta di “sismografo” in grado di registrare con precisione i momenti di crisi epocale: oggi non possiamo chiedere alla pittura o alla scultura né le fughe mitologiche né la rassicurante compostezza rinascimentale, sarebbe assurdamente anacronistico e completamente forviante rispetto all’attuale situazione storico-culturale-sociale. La pittura di Vignali è come un brano di musica house-techno nella sua evoluzione hardcore, dove il suono si fa percussivo, cupo, aspro, con interferenze sonore, velocità e ultrabassi; è un’improvvisa scossa adrenalinica per i neuroni di chi ha il coraggio di abbandonarsi a questa esperienza visiva-sensoriale. Ciò che l’autore propone è una sfaccettatura della multiforme, poliedrica attualità globalizzante, e la sua voce fuoricampo non è certo un fenomeno isolato.

La guerra giocata di Alessandro Vignali

di Nicola Galvan (critico e storico dell’arte, 2008)

Non è raro sentire affermare, a proposito di un artista contemporaneo, che questi esprima attraverso le proprie opere un suo mondo personale, una patria interiore dalla quale, per usare un’immagine di Marcel Proust, egli proviene ed a cui fa metaforicamente ritorno attraverso l’atto creativo. Questo genere di considerazione, ormai convenzionale, appare però ineludibile quando ci si trovi ad affrontare la pittura di Alessandro Vignali, il cui scopo sembra essere quello di una autentica rifondazione del mondo conosciuto, le cui memorie vediamo riflettersi in una sorta di specchio deformato, in un universo parallelo dal carattere indistintamente onirico. C’è una parola che ritorna nei pochi appunti scritti a cui il pittore affida il compito di accompagnare le proprie mostre, la parola – concettualmente e operativamente eloquente – bambino. Sarebbe però riduttivo, nel nostro caso, associare al mondo infantile la semplice idea dell’ingenuità o della fragilità. L’atto, in sé potente e sommamente narcisista, della reinvenzione del mondo che ci circonda, attiene infatti alla facoltà immaginativa dei bambini, assieme all’annullamento del tempo storico e delle sue categorie di passato, presente e futuro. Aspetti questi che ritroviamo parte della ricerca visiva di Vignali, dove soldati prussiani e navi vichinghe dividono la scena con mirabolanti macchine volanti, immaginate a dispetto delle logiche della tecnica e della storia. Altre “barriere”, tuttavia, sono destinate a cadere nei suoi quadri. Se le figure dei suoi soldati, simili ad ectoplasmi sorti per pura virtù di pittura, sembrano da questa riconvocate alla vita, sottratte al limbo della morte e delle pagine dei libri di storia, anche la materia inerte pare animarsi. Inquietantemente vive sono le sue architetture, figlie di un mondo nordico, gotico e vagamente barbarico, che irriducibile all’ordine della misura classica, nella quale si distende viceversa il costruire mediterraneo, ha trovato la propria sintesi nell’impennarsi delle torri, negli alti pinnacoli o nelle merlature dei castelli. Vive anche le statue che compaiono in alcuni scorci urbani realizzati negli anni novanta, direttamente collegati al ricordo di Vignali appassionato viaggiatore nell’Europa centrale e settentrionale. Quanto alla sostanza degli spazi generati dalla sua pennellata irregolare, sgrammaticata, ed a quella delle stesse figure, essa sembra subire degli autentici passaggi stato, avendo quale unica certezza l’identificazione con la natura del colore: gli alberi e gli eserciti possono assumere la forma e le tinte della fiamma o dell’acciaio, ed agire il proprio destino galleggiando in una dimensione che al tempo appare terrena, aerea e liquida, scossa dal loro scontrarsi senza scopo in una atmosfera di perenne naufragio. Al centro del mondo visivo di Vignali vi è infatti l’idea di conflitto, le cui modalità rappresentative vanno, in qualche misura, ricondotte anch’esse nella dimensione infantile. Ciò che l’artista sembra voler allestire è un grande gioco di soldatini impiombati, una macchina scenica che, come in certi quadri di Hieronymus Bosch, rinuncia ad assumere un unico centro focale, forse da individuare all’esterno della rappresentazione, nella persona dell’artista stesso. I suoi teatri di guerra, dove, anche per l’assenza di sangue, sempre più la guerra diviene teatro, hanno inoltre conosciuto recentemente un’interessante evoluzione. Alla dispersione di uomini e mezzi rilevabile nelle opere degli anni novanta, dove era occasionalmente possibile scindere, se non i buoni dai cattivi, perlomeno l’offensore da chi si predisponeva alla difesa od al presidio, ora si sostituisce un serrare le fila: gli eserciti si scontrano compatti in campo aperto, gli uni speculari agli altri, identici eppure resi nemici da una diversa divisa, la quale, dal canto suo, oltre ad annullare ogni possibile individualità, rivela la propria natura di maschera, travestimento, costume di scena. Le battaglie “giocate” da Vignali sono ricalcate su quelle del passato, condotte uno contro uno, baionetta contro baionetta, in cui ogni uomo, gettato verso una possibile morte da ordini superiori a volte imperscrutabili, fatalmente guarda negli occhi il proprio avversario, il proprio doppio. Sono, con buona probabilità, l’estrinsecazione dei nostri conflitti interiori, dominabili a patto di essere messi in scena: il nemico, sembrano volerci dire, non è che un alter ego che abita e si contende il nostro stesso Io. Queste superfici, saturate di colori e forme come per placare una sorta di horror vacui, mostrano diverse analogie con le ricerche pittoriche di matrice genericamente espressionista del Novecento. Gli angoli di cielo, solcati occasionalmente da voli di presenze stregonesche, potranno ricordare i flussi cromaticamente irreali di certi scorci paesistici di Edvard Munch, o di Emil Nolde, testimonianze di una natura urlante e lacerata. La regressione della forma, l’acido scontro di alcune tonalità, stese in impasti che esibiscono la propria asperità materiale, la ricerca dei protagonisti del gruppo CoBrA, quali Karel Appel o Asgern Jorn. La trasversale, apparente citazione di simili avanguardie e neo avanguardie, assieme al libero riferirsi alla figura quanto all’astrazione – si notino a proposito di quest’ultima certe forme cubiche, condotte sull’orlo di una liquefazione che le identifica quali parodie geometriche -, l’approccio espressivo della Transavanguardia italiana. E da ultimo, guardando alle premesse ed alle conseguenze del nucleo tematico della sua pittura, alcuni penseranno alle opere letterarie del primo Günter Grass, quali “Il tamburo di latta” o “Gatto e topo”. Singolare, eppure riconducibile alla particolare sensibilità degli artisti, capaci anche di sapere senza conoscere, apprendere come a tutto ciò Vignali pervenga per mezzo della più assoluta spontaneità dell’espressione, convinto anzi di una pittura che si situi in opposizione a “il Liceo, l’Accademia, l’Università”. Una pittura che, manifestandosi quale intima necessità, trasferisce in immagini un diario interiore fatto di memorie e visioni, da sfogliare attraverso “pagine” che si susseguono e contaminano l’una dopo l’altra. Vignali è uso sovrapporre le proprie tele quando il colore ad olio che le ricopre non è ancora perfettamente asciugato: chi si trovi ad osservare il loro retro, potrà riconoscervi le tracce dell’avventura precedente.